«Un “laboratorio di bene” come cura per l’umanità»
«Abbiamo assistito a un ascolto vero, rispettoso delle diverse esperienze e non formale. C’è bisogno di una Chiesa che sia riparo per tutti coloro che ne sono privi»
Una sobria ebbrezza. Un apparente controsenso, che però racconta una fiducia e una speranza che rendono contento il cuore. È con questo ossimoro che il cardinale Matteo Maria Zuppi ha definito il sentimento conclusivo della prima Assemblea sinodale, svolta a Roma, presso la basilica in San Paolo fuori le mura. E infatti, di motivi di gioia ce ne sono stati tanti per la Chiesa, che in un luogo storico ha celebrato un evento altrettanto storico: la prima assemblea aperta ai laici che, insieme ai consacrati, hanno discusso di 10 tematiche diverse in oltre 100 gruppi di lavoro, accogliendo delegati da tutte le diocesi d’Italia.
Uno spaccato del popolo di Dio, insomma, del quale hanno fatto parte anche alcuni laici della diocesi veneziana, tra cui Alessandro Molaro, esponente dell’associazionismo cattolico, Federico Favaro e Valentina Furlanetto, giovani sposi, intervistati da GV.
Riflettendo su quale sia stato il momento più importante di questa esperienza, Federico afferma: «In un contesto in cui tutti volevamo tirar fuori il meglio possibile dalla Chiesa, non potevano bastare la nostra volontà e le nostre idee. Fondamentale è dunque stata la preghiera iniziale allo Spirito Santo perché, per fare passi così importanti, è necessario che la volontà sia di qualcun Altro, non la nostra».
Per Valentina, invece, decisivo è stato il confronto nei tavoli: « Vedere vescovi, sacerdoti e laici in dialogo fra loro, ha avuto su di me un impatto molto forte: mi ha fatto capire come questa assemblea sia stata anzitutto un “laboratorio di bene”. Tutti insieme eravamo uniti da un unico desiderio: prendersi cura non solo della Chiesa, ma dell’umanità tutta».
Un aspetto, quello dell’apertura ai laici, per nulla scontato, secondo Alessandro: «È bello testimoniare che nelle tre fasi del cammino sinodale non ci sia stata una progressiva restrizione della partecipazione. Anche adesso, nell’ultima fase decisiva per la stesura del documento finale, si è scelto di camminare insieme. È stata particolarmente significativa la disponibilità di tutti ad ascoltarsi reciprocamente. Non è stato un ascolto formale, ma vero, rispettoso delle diverse esperienze».
Inoltre, nel definire la portata di queste giornate, Alessandro confida: «Ripensando a quanto abbiamo vissuto, mi sono accorto che è stata un’esperienza fatta con il cuore. Con questo termine intendo l’adesione personale a questa esperienza con un coinvolgimento che mi ha toccato profondamente, perché è nel cuore, come dice Papa Francesco, che ogni persona fa la sua sintesi».
Come uomo di fede, Federico aggiunge: «Pur non conoscendoci con gli altri delegati, fin da subito ho sentito un clima di fraternità. Ci siamo sempre accolti nonostante, a volte, l’elevata differenza di incarichi, come ad esempio quella tra noi e i vescovi. In effetti è così che immagino la Chiesa: una famiglia in cui, al di là delle diverse chiamate e ruoli, tutti siamo fratelli e sorelle».
Alle parole del marito, Valentina si accoda: «Come laica, mi sono sentita ingaggiata nel poter essere testimonianza del Risorto nella vita pubblica, dove oggi la Chiesa fa più fatica ad arrivare, soprattutto sapendo di non essere sola».
Infine, nell’indicare quale sia stato il dono più grande di questi giorni, tutti e tre sono concordi: «Ciò che porto a casa è una speranza – afferma Federico –. La speranza che le parole dette e sentite possano essere ascoltate veramente. Abbiamo bisogno di una Chiesa che sia riparo per chi ne è privo, che sia ospedale per chi è ammalato nell’animo, che sia coerente e limpida e che dia spazio a tutti coloro che ne chiedano».
Una Chiesa, come completa Alessandro, «ricca di santi della porta accanto, che testimonino la bellezza della vita in Cristo».
Andrea Maurin
